CONVEGNO LINGUA SICILIANA 2015

Quale criterio ortografico per il Siciliano?


          Il Siciliano, lo sappiamo tutti, è una lingua controversa, soprattutto oggi che il dibattito su “quale” siciliano adottare è ancora aperto. Infatti, con l’avvento del fonografismo o, se vogliamo, per essere più moderni, con lo sviluppo della riflessione scientifica sul criterio fonetico di trascrizione, il siciliano scritto perde quel carattere di relativa uniformità che ha tenuto per secoli e di cui possediamo una vasta letteratura. Come ebbi a sostenere nella mia precedente relazione sul concetto di “lingua siciliana” presentata nello scorso convegno ASAS su questo specifico tema, parlare di “lingua siciliana” è arduo e fuorviante. Infatti una lingua vera e propria, uguale in tutta l’Isola sia parlata che scritta, con una sua specifica e unica grammatica e una sua vasta letteratura che per conformità di struttura la consolidasse tale, non è mai esistita. Dalla Scuola Poetica Siciliana di Federico II di Svevia, dove ebbe inizio la nostra letteratura, al XV secolo circa, vi era una discreta coerenza ortografica tra gli ambienti letterari nostrani, soprattutto tra i poeti, e tale coerenza (inerente alla sola scrittura) si protrasse, seppure spesso zoppicante e a macchia di leopardo, per qualche secolo ancora. Poi il toscano prese il definitivo sopravvento restituendo quella eroica, ma larvale, impalcatura linguistica al suo ruolo naturale di dialetto nella sua pluralità espressiva. Sì, perché non esiste un unico dialetto regionale, ma centinaia di dialetti di un’unica matrice, ed ognuno esprime le radici di una popolazione locale. Infatti i moduli espressivi variano a secondo del luogo e delle dominazioni che ne hanno modellato il linguaggio, così che abbiamo variazioni, anche di inflessione oltre che di sintassi, tra il dialetto siciliano che si parla a Catania e quello che si parla a Palermo o a Caltanissetta, Ragusa, Messina, Agrigento, Siracusa, ecc.. Spesso persino nella stessa città ci sono inflessioni diverse a secondo la zona; per non parlare dei vari paesetti che a volte sono, per dirla con Pirandello, isole nell’Isola.
Oggi gli scrittori e i poeti dialettali, nella maggior parte dei casi, scelgono liberamente di scrivere nel dialetto che è a loro più congeniale, ossia nella loro parlata locale. Ciò fornisce un’enorme ricchezza di informazioni per lo studio del patrimonio linguistico siciliano e dei popoli che hanno vissuto e dominato specifiche zone del nostro territorio. Attenzione all’espressione “patrimonio linguistico siciliano”, è la stessa che riscontriamo nell’art. 1 della legge approvata dall’Assemblea Regionale Siciliana mercoledì 18 maggio 2011: “La Regione promuove la valorizzazione e l’insegnamento della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico siciliano nelle scuole di ogni ordine e grado”, la legge non parla dello studio della “lingua siciliana”nelle scuole, ma dello studio del “patrimonio linguistico siciliano” ossia dello studio scientifico delle varie parlate locali e della loro derivazione, quindi di quei popoli stranieri che insediandosi in specifiche zone della Sicilia ne hanno influenzato il linguaggio locale, non di una “lingua siciliana”; dire che la legge prevede lo studio della “lingua siciliana” nelle scuole è una incongruente e falsa forzatura; quindi questa scelta di scrivere adoperando le parlate locali è di vitale importanza per la conservazione delle nostre radici storico-culturali: da ciò che fummo possiamo capire ciò che siamo e perché.
Ma allora parlare della costruzione di una koinè regionale, ossia di una lingua comune sia parlata che scritta (perché questo significa “koinè”) ha senso? Attualmente direi proprio di no, oggi non è la koinè la strada da seguire, ma lo è il ricorso a comuni norme ortografiche (almeno per la letteratura), poiché se esistesse un’unica e idonea grafia delle parlate siciliane, accettata ed adottata da tutti, molte difficoltà oggi esistenti scomparirebbero. Dunque è indispensabile, attualmente, entrare nell’ottica non di una koinè, ma della realizzazione di un sistema ortografico codificato. E fin qui eravamo arrivati nel precedente Convegno ASAS, ora entriamo nel vivo dell’argomento di oggi, ossia quale criterio ortografico di trascrizione adottare per il Siciliano? Poiché anche sulla scelta di un sistema ortografico codificato, ossia del criterio di trascrizione per il Siciliano, quindi sulla formulazione di comuni norme ortografiche, i pareri contrastano (noi siciliani siamo fatti così, è la nostra natura) e le difficoltà che si incontrano appaiono insormontabili. Esistono, infatti, prevalentemente, due correnti di pensiero opposte che si sono sviluppate soprattutto nell’ultimo mezzo secolo e che percorrono, in perfetta antinomia, due linee parallele di criterio senza mai incontrarsi: il criterio scientifico o fonetico e quello etimologico o letterario. Quale scegliere? Su quale criterio basare la formulazione di un sistema ortografico codificato? Valutiamone i pro e i contro. Il primo si basa sulla fedele trascrizione fonetica delle parole, ed è scientificamente corretto e incontestabile, ma poco adatto allo scopo di una ortografia comune per lo sviluppo di una letteratura fluida e uniforme, in quanto per le parlate locali non è possibile creare regole uniformi certe e stabili valide per tutte, è inutile girarci attorno, poiché, come abbiamo prima accennato, la parlata di Ragusa nulla ha a che vedere con quella di Catania; quella di Agrigento non collima con quella di Messina; quella di Trapani bisticcia con quella di Siracusa; ecc.. Per non parlare dei vari sottodialetti che esistono e si diversificano tra un paesino e un altro o, addirittura, nella stessa città (Catania ha cinque parlate diverse, secondo la zona in cui ti trovi). Adottando il criterio fonetico sarebbero necessari tanti testi di ortografia dialettale quante sono le parlate in Sicilia nelle loro continue diversificazioni di sfumature e ogni opera si troverebbe relegata solo al suo luogo d’origine, perché altrove risulterebbe poco comprensibile. Se dovessimo seguire il criterio fonetico ci ritroveremmo in una vera e propria Babele: c’è chi scriverà miegghiu e chi scriverà megghiu, chi scriverà figliu e chi scriverà figghiu, il catanese poi che si mangia la r anziché porta, forza, arcu, perdi, carni scriverà potta, fozza, jaccu, peddi, canni (le ultime due nella scrittura si confonderebbero con pelle e canne). Certo, il criterio fonetico è senz’altro il più giusto per un linguista, ma può essere adottato solo quando si “parla” una lingua comunque uniforme, come in qualche modo lo è oggi l’Italiano; nel caso del Siciliano l’uniformità proprio non esiste, sono centinaia i sottodialetti e decine i modi di dire una stessa parola o di chiamare uno stesso oggetto; ad esempio per la trottola di legno (e qui ringrazio gli amici ASAS di Facebook per la gentile collaborazione) la scelta è ampia, dipende dalla zona di Sicilia in cui ti trovi; a secondo la zona troviamo infatti i seguenti termini: tuppettu; tuppettiru (con variante tuppetturu); ghiumminu; strummula (con variante strummalu); paloggiu (con varianti palogiu, panoggiu, panorgiu, pranoggiu); piru; turtuluni; farfaredda; mulidda; virticchiu; ferracchiocchiara; rummulu; badda; coculu; trottula (con varianti truottula, truettula); ecc..
Qual è allora la strada giusta da percorrere, visto che il criterio fonetico non permette di unificare l’ortografia? È forse il criterio letterario? Ma seguendo il criterio letterario non si arriverebbe a una lingua costruita a tavolino e non rispondente a nessun Siciliano parlato? Per rispondere a questa domanda credo sia meglio ripercorrere brevissimamente la storia dell’idioma siciliano cominciando a dire che esso ha radici molto antiche che risalgono al sanscrito, idioma degli Arii che si disseminarono in tutta l’Europa facendo nascere le lingue indoeuropee e che ci hanno lasciato (affermazione controversa) la caratteristica pronuncia di “bedda”, “tri” e “strata”. Ma la sua costruzione “attuale” ci deriva dal Latino assimilato durante la lunga dominazione dell’Impero Romano. Sì, il Siciliano ha attinto nei secoli molte parole dalle lingue di varie dominazioni sicilianizzandole, ma quello attuale deriva dal Latino (poiché i Romani dominarono nella parte occidentale del loro Impero per circa cinque secoli e nella parte orientale per circa quindici secoli), e prevalentemente da quello volgare. Esso addirittura fu la lingua di transazione tra il Latino di ieri e l’Italiano di oggi (il moderno Latino dell’inizio del secondo millennio), diventando “lingua della letteratura” (che fu la prima) alla corte di Federico II di Svevia con la fondazione della Scuola Poetica Siciliana. Quindi, come avvenne successivamente con Dante, già da allora fu posto il seme per una lingua “aulica” della letteratura che nulla o poco aveva a che vedere con quella parlata, siamo nel 1230 d.C.. Le tracce di quel Siciliano purtroppo si sono perse, ciò che ci è giunto è il rimaneggiamento dei toscani (anche se il ritrovamento recente di alcune poesie della scuola siciliana in una biblioteca lombarda, antecedenti alla trascrizione dei toscani, apre nuovi orizzonti). Ma esiste una vastissima letteratura sia poetica che narrativa che ha forgiato una lingua letteraria tradizionale pressoché uniforme in tutta la Regione già a partire da Bartolomeo Asmundo (siamo nel 1480) ad oggi, per cui almeno nella scrittura è praticamente sempre esistita, non è quella marziana lingua della letteratura irraggiungibile che si vuole far credere. Dunque ritengo che il criterio letterario sia la strada giusta da percorrere, poiché mentre per la scrittura cosiddetta “tradizionale” è possibile creare “regole uniche” certe e stabili, per le parlate locali no.
L’Italiano, come il Siciliano, deriva dal Latino, è una lingua neolatina che necessariamente, per ragioni storiche, si è sviluppata nella sua struttura più del Siciliano. Il Siciliano, che è una lingua viva, quindi, come tale, in una continua trasformazione si globalizza perdendo pezzi per strada e conquistandone nuovi, è oggi, per forza di cose (sono trascorsi circa sei secoli di naturale contagio), molto più vicino all’Italiano di quanto si possa pensare, tranne in alcuni lemmi o costruzioni di frasi; quindi oggi non si può parlare di “dialetto italianizzato”, ma di naturale mutazione in “dialetto moderno” (mutazione avvenuta di pari passo. ma sempre un passo indietro, con quella dell’Italiano), ossia un linguaggio consono ai nostri tempi, comprensibile da tutti; oggi non ci sogneremmo mai di chiamare “muccaturi” il fazzoletto, per cui ritengo ormai che il sistema grafematico italiano, insieme alle sue regole ortografiche, debba conseguentemente essere il più naturale punto di riferimento “odierno” per il Siciliano. Certo, non esistono a tutt’oggi regole codificate per il Siciliano, quindi la mia si può ritenere solo una libera scelta personale, ma la ritengo la più logica e quindi protendo verso questo orientamento, che, come dicevo prima, per forza di cose o per mancanza di regole certe, attestate e standardizzate, non troverà il consenso di tutti e, come sempre, accadrà che l’annoso dilemma sarà destinato a protrarsi nel tempo. Pur non di meno, tenendo sempre distinta l’ottica del letterato da quella del linguista, comunque entrambe giuste (mistero dell’antinomia), a mio umile parere, per la trascrizione del Siciliano inerente la letteratura (con eccezione, forse, delle opere teatrali), andrebbe adottata l’ottica del letterato, perché letteratura dobbiamo produrre.


Antonino Magrì



NOTA: L'autore ci ricorda che tale argomento su riportato è ampiamente trattato, insieme ad altri inerenti alcune problematiche dell'ortografia siciliana e sulla sostanziale differenza tra la poesia in metrica e il verso libero, nel suo libro di poesie siciliane "Spisiddi", che è di prossima uscita.


CONVEGNO LINGUA SICILIANA 2011

AVVISO IMPORTANTE: - L'Associazione siciliana arte e scienza A.S.A.S. , non ha mai realizzato Atti del convegno Asas in forma cartacea, avendo creato questa pagina web sul Sito personale.

 

Il presidente Asas Flavia Vizzari.

 

 

Chiunque, anche tra i convegnisti, o tra i Soci o ex Soci, non appartenente al Direttivo ASAS, NON è AUTORIZZATO ad agire in nome dell'Asas e per conto dell'Asas nel diffonderne i contenuti del Convegno di Lingua siciliana Asas!


 

Alba Terranova

 

Signore e signori buongiorno e benvenuti a questo II convegno della Lingua siciliana “sogno una koinè comune”, è un evento che è stato organizzato nell’ambito
del II Raduno poetico siciliano “Tra arte, scienza e natura”, secondo perché il
primo è stato organizzato lo scorso anno quando ancora i membri dell’associazione siciliana arte e scienza non avevano costituito l’associazione quindi sarà oggi questa, una opportunità per presentare ufficialmente l’associazione e i suoi membri. Quindi passo velocissimamente a presentarvi i soci fondatori : Flavia Vizzari presidente (se volete alzarvi e farvi vedere così ci conoscono), Nino Comunale vice presidente, Pasquale Ermio segretario, Alba Terranova che sono io presidente del consiglio dei soci fondatori, Nicola Comunale presidente onorario, alcuni dei soci purtoppo non
sono presenti, io comunque li nomino ugualmente, Pina Bernava, Mariella La
Rosa, Maria Nocita, Marina Nicoletti, Davide Panarello, Luigi Terranova e Licia
Velardi.

Prima di iniziare dobbiamo doverosamente rivolgere un ringraziamento all’assessore
alle politiche culturali della provincia regionale di Messina, il dott. Mario
D’Agostino, che ci ha aiutato, ci è stato vicino, ci ha consigliato e ci ha sostenuto pur non conoscendoci ed essendo appunto noi, una associazione emergente. Prima di dare inizio al Convegno vero è proprio, vogliamo brevissimamente, anche perché s’è fatto un po’ tardi, consegnare le targhe con la nomina ufficiale dei Soci onorari (chi è presente si può avvicinare), il dott. Nino Barone mi sembra non sia ancora arrivato, al professore Salvatore Camilleri, consegna la targa il presidente onorario, il professor Nicola Comunale …

 

…a Rosario Fodale consegna il socio fondatore la professoressa Maria Nocita. Rosario Fodale è presidente dell’Associazione messinaweb.eu, che ha collaborato con noi anche nella realizzazione di questa prima nostra manifestazione, all’assessore alle politiche scolastiche del comune di Messina, il dott. Salvatore Magazzù, consegna il presidente Flavia Vizzari; e nella persona dell’assessore Magazzù vogliamo ringraziare anche il Comune di Messina per quanto ci ha collaborato, ci ha aiutato e assistito per la realizzazione di questa manifestazione.

Quindi siamo giunti nel vivo del Convegno, e allora senza perdermi ancora in troppe chiacchiere cedo subito la parola al primo relatore, il professore Lucrezia Lorenzini docente di letteratura e filologia siciliana, filologia romanza per lo spagnolo, e letteratura italiana presso la facoltà di lettere e filosofia dell’università degli studi di Messina


 

Lucrezia Lorenzini

 

Grazie alla signora Vizzari e naturalmente all’associazione per questa giornata di incontro. Parlare in questi tempi di letteratura, di filologia, di poesia sembrerebbe quasi anacronistico; in realtà se pensiamo alla nostra società affetta dal relativismo storico, dal relativismo etico, da tutta una serie di elementi che sembrano quasi fuorvianti rispetto a quei concetti a quei valori che dovrebbero essere alla base della nostra esistenza, questa giornata è ancora più meritevole proprio per questa forma di incontro e immagino anche di dibattito. Avevo dato un titolo, una dicitura a questa breve conversazione sulla codicologia letteraria e linguistica. Parlare della Sicilia significa parlare anche di un’isola che ha fatto della metafora quasi un concetto
essenziale nell’essere dentro il bacino del mediterraneo; parlare della Sicilia
significa anche parlare in questo senso della circolarità della cultura che è presente in questa zona del mediterraneo che badiamo bene, anche geograficamente non solo letterariamente, non significa solo questa zona all’interno della quale esiste la nostra isola: per mediterraneo intendiamo anche l’alto adriatico e l’alto tirreno.

 

Una serie di stratificazioni linguistiche nel corso dei secoli, dovute al succedersi di tante etnie, sicani, siculi, normanni, arabi, non li elencherò per intero perché siamo a conoscenza tutti di queste stratificazioni, ha comportato, nell’ambito della letteratura e quindi dei vari generi letterari che sono all’interno di essa, una serie di individuazioni, di peculiarità linguistiche che di fatto connotano, giustificano, in un certo senso, ciò che primariamente veniva definita come Lingua siciliana mentre come ben sappiamo tutti quanti solo con la nascita dell’unità d’Italia è corretto parlare di dialetto.

 

Nell’ambito dei secoli la codicologia, sia letteraria sia linguistica, di fatto conosce una sua espressione più marcata nell’ambito delle accademie che non erano solo quel salotto letterario cui forse generalmente noi pensiamo di riferirci; le accademie erano degli spazi letterari all’interno dei quali i vari poeti discutevano, si confrontavano e
facciamo un passo indietro, questa terra che non è solo un’isola geografica, ma è un isola che si è sempre nel corso dei secoli proiettata verso quelle istanze di rinnovamento che erano presenti oltralpe. Quindi non faccio riferimento a quelle che erano le correnti di pensiero nelle individuazioni anche peculiari linguistiche e tematiche presenti nella penisola ma con riferimento anche a quelli che erano i concetti peculiari proprio d’oltralpe, massimamente alla Francia ma anche a tutte
quelle zone del nord Europa.

 

La Sicilia ha saputo, nel corso dei secoli, mantenere una sua autonomia, anche se questo concetto di autonomia e di libertà, sembrerebbe contraddire con tutta una serie di elementi che hanno una matrice storica; vi dirò brevemente perché,  soprattutto nell’ambito della dominazione spagnola, (sotto il termine spagnolo noi di fatto riuniamo altre dominazioni, aragonese, castigliana, ma parliamo di dominazione spagnola), gli spagnoli diedero quasi una sorta di concetto di pseudo libertà ai siciliani, ma in realtà questo popolo vessato nel corso dei secoli da una
serie di predominanze etniche non ha mai conosciuto il concetto di libertà. Se noi facciamo riferimento non solo al periodo spagnolo ma ancor prima al cinquecento, 
quando in questo secolo il cosiddetto fenomeno del petrarchismo conosce
proprio all’interno dei poeti siciliani una sua specificità, diciamo petrarchismo e facciamo riferimento al Petrarca, ma il Canzoniere non diventa solo un modello di economia amorosa, ma diventa modello di vita. I siciliani con quell’abilità e anche con una certa esperienza, dovuta nel corso dei secoli precedenti, riuscirono a dare anche un tocco di originalità, perché pensare a dei modelli quando si pensa al modello si immagina che il poeta faccia riferimento a quella che è l’architettura statuale o comunque ad una struttura quasi sinusoidale linguistica. I siciliani riuscirono invece grazie anche ad una maturazione effettuata nel corso dei secoli ad esprimere una propria codicologia. Qui oggi si parla di Lingua e allora è inevitabile fare un breve riferimento a quella Lingua siciliana dai poeti della scuola poetica siciliana, ma soprattutto ancora di Lingua siciliana si parla con Giovanni Meli, quindi siamo in un salto di secoli.

 

Giovanni Meli con la sua scuola con l’accademia cosiddetta nazionale, che pomposamente Meli vuole dare al titolo di accademia siciliana, quindi con Giovanni Alcozer, con Ignazio Scimonelli, con Francesco Maria Gueli, con tutta una serie di poeti che gravitarono all’interno di quest’accademia. Qual è il punto nodale, l’impiego della Lingua siciliana o quel siciliano toscanizzato, fortemente endemizzato sempre più, a partire dalla fine del quattrocento e che di fatto perderà non solo gli atti cosiddetti ufficiali ma buona parte della produzione letteraria siciliana, siciliano toscanizzato o toscano sicilianizzato di fatto sarà presente per buona parte della produzione sino appunto al settecento. Vorrei ricordare, quel famoso gentiluomo siracusano, Claudio Mario Arezzo, nel momento in cui tenta un recupero dell’impiego della Lingua siciliana là dove ormai questo processo sempre endebile , endemizzato, per usare un termine filologico, presente nell’ambito della produzione letteraria ha di fatto sovvertito l’utilizzo, lo strumento linguistico del siciliano, tenta questo colpo di mano Claudio Mario Arezzo ma capite bene, e qui dobbiamo contestualizzare anche il processo linguistico, perché non dimentichiamo che la parcellizazione storica che c’era nell’ambito della penisola del tempo significava anche una parcellizazione, una frantumazione linguistica dunque si parlava il veneto nel veneto, il piemontese nel piemonte e via dicendo. Bene pensate agli intellettuali siciliani del tempo che con grande intuizione, ed essere stati loro stessi soggetti  interpreti del cambiamento, capirono che continuare a scrivere e a parlare in lingua siciliana, cosa che avrebbero potuto fare, avrebbe però di fatto comportato un elemento di estraneità in questo grande processo di unificazione che non è avvenuto nel momento in cui noi parliamo del 1860-61 come tutti i grandi processi storici ha necessità e ha avuto necessità anche di essere coltivato nel tempo; quindi la presenza di elementi che oscillavano tra una forma di petrarchismo, una forma di manierismo di fatto condurrà poi la lingua siciliana ad essere volutamente
abbandonata dagli intellettuali nel corso dei secoli per aderire anche loro a questo grande processo di unificazione linguistica. Noi oggi all’insegna di questo excursus che avrebbe comportato più tempo, ma interessa però sottolineare la grande valenza dei poeti quando noi parliamo di letteratura siciliana, o di letteratura sarda, o di letteratura piemontese o veneta, facciamo riferimento a ciò che ormai da decenni è presente nell’ambito degli ordinamenti didattici non solo universitari ma anche
scolastici, cioè la letteratura non è formata solo dai maggiori, Dante, Ariosto, Petrarca e via dicendo, ma è formata anche dai minori e dai minimi, perché tutti, anche voi, contribuite con il vostro apporto a delineare il quadro il più possibile omogeneo di una regione e quindi di una stabilità, significa questo poi percorrere da parte dello studioso o del critico una serie di eventi che, ripeto sempre questo termine, vanno contestualizzati, e inimmaginabile enucleare un poeta, un prosatore, fuori dal tempo in cui egli è vissuto, perché di fatto egli riflette quelle che sono le
vicende socio politiche del tempo e quindi i bisogni, le istanze, le domande,
le urgenze, quelli che sono i palpiti di fatto di una società e che vengono, con una maestria che è propria del poeta, perché capite, tutti scrivono, tutti possono riempire fogli, o pagine, o altro, si tratta semplicemente (sembrerebbe così semplice), di dare quella dignità letteraria e quindi quel mondo di sensazioni e di emozioni che appartengono e che sono propri a chi ha una maggiore sensibilità, diversamente da altri, la cui intelligenza probabilmente si spande su altri campi. Oggi alla luce delle vicende attuali, non entrerò nel merito delle tante rivendicazioni autonomistiche che ci sono e che di fatto desidererebbero riportare forse anche l’utilizzo della lingua siciliana, a noi preme (questo fatto)? essere stati ed essere ancora oggi essere stati perché il percorso storico ci permette di avviare, di esprimere e di delineare una grande galleria, fatta di tanti quadri, ognuno di essi partecipi di quel momento costruttivo della letteratura siciliana ma nel contempo essere oggi anche soggetti attuatori di un discrimine, perché sappiamo bene cosa significhi tutelare e salvaguardare usi e costumi della nostra terra, l’utilizzo dunque della lingua siciliana è un utilizzo che
sta radicamente forse prendendo oggi maggiore proprio presenza nell’ambito del nostro territorio e che di fatto non ultimo anche l’indirizzo volutamente ripreso dalla assemblea regionale sulla capacità, sull’impiego della storia, della lingua e della letteratura siciliana anche in ambito scolastico; cercare dunque di mediare tutto questo, significa anche portare a termine quello che è stato
il patrimonio della nostra letteratura, un patrimonio ripeto non avulso da quelle contaminazioni che sono state necessarie, perché con la contaminazione è possibile esprimere una originalità, dare cioè una marcatura che segni in maniera inequivocabile il senso, e perché no, anche lo sviluppo di una poesia fatta di suono, di colori, di versi della nostra terra.

 

Grazie!


Lia Mauceri

 

E abbracciandoci al discorso che si vuole fare oggi di una koinè, voglio portare un esempio di incoerenza ortografica e di quanto sia grave quando c’è questa unione di
incoerenze quindi danno e capacità di fare di un dialetto una lingua, parliamo dell’
INCOERENZA ORTOGRAFICAnell’opera di Nino Martoglio

 

Il primo a porre il problema sull’incoerenza ortografica nell’opera di Nino Martoglio fu senz’altro Luigi Capuana e ce lo testimonia una lettera del 9 Novembre 1906, dove, fra l’altro, il nostro così si esprime: “...Discordo
dalla sua opinione che il dialetto siciliano sia insofferente di regole
grammaticali ed ortografiche. Mi sembra che ne abbia quanto ogni altro e quanto
certe lingue. Solamente l’ortografia di esso è ancora incerta, nonostante i
molti sforzi fatti per renderla stabile... la grafia fonetica ha un grandissimo
inconveniente anche per i lettori siciliani. Il dover ricorrere, a ogni
istante, alle note esplicative diminuisce il piacere dell’immediata impressione
estetica... Il Di Giovanni ha pubblicato
Lu fattu di Bbissana e A lu passu di Giurgenti, due bei lavori, mi dicono; ma io ho dovuto
rinunziare di andare oltre le prime pagine, poco o niente intendendo della
parlata girgentina foneticamente trascritta...”

 

E vediamo cosa aveva scritto il Martoglio precedentemente, quando informava il Capuana della pubblicazione in volume di tutte le sue “cosucce in versi
dialettali”
e del fatto che gli aveva dedicato uno degli otto libretti, ‘O scuru ‘o scuru, come fosse la raccolta migliore; e tutto ciò nella lettera inviata da Roma nell’ottobre del 1906:


 Dice Martoglio “... Per la grafia mi sono strettamente attenuto alla fonetica, che è,
a mio modesto parere, la sola guida e maestra per la corretta e corrente
scrittura del nostro idioma insofferente di regole grammaticali e
ortografiche...”


Chi dei due aveva ragione?
Guardiamo per un attimo alle spalle di Nino Martoglio. Fino all’unità d’Italia
il siciliano aveva una sua grammatica e una sua ortografia che derivava dalla koinè
del Meli (1790). Con l’unità d’Italia (1860) la lingua nazionale, come era
detto il siciliano, divenne dialetto, uno dei tanti dialetti della penisola, e
allora si cominciò a scrivere senza pensare più alla koinè, favoriti anche dal
fatto che il Verismo, dominante in letteratura, postulava una scrittura
“verista”, cioè corrispondente al suono reale della parola (Fonografismo).

 

Inoltre, dagli studi sul folklore, condotti da Giuseppe Pitré, Lionardo Vigo, Salvatore Salomone-Marino e da altri insigni studiosi, emergeva il fatto che cambiando la grafia e adattandola alla parlata del popolo, ci si poteva liberare dal modello meliano
e da tutte quelle forme arcadiche, imitate da circa un secolo e ormai usurate,
ormai scadute.


Da questo travaglio inoltre erano nate opere come il saggio critico su “Saru
Platania e la poesia dialettale in Sicilia”
(1896) di Alessio Di Giovanni, che
è la prima opera critica nata con l’intento di affrontare i problemi della poesia siciliana nella nuova realtà politica e culturale. Saggio che prese in esame oltre che la poesia del Platania anche quella del Trassari e del Martoglio.


Non c’erano ancora precise idee su come affrontare le problematiche della nuova poesia, ma per lo meno risultava chiaro che la nuova poesia voleva liberarsi dai vincoli meliani e dal suo linguaggio ormai stantìo, non più consono alle nuove tematiche. Tematiche che nel Di Giovanni si rivolgevano al latifondo siciliano, come nel Martoglio ai quartieri del catanese, alla gente comune, al popolo siciliano.


Con il volume “A lu passu di Giurgenti”(1902) Alessio
Di Giovanni cambiando la grafia diede tanti esempi di come si potesse sfuggire
al pericolo dell’imitazione.


Da questi fermenti nascono e maturano altre idee che, con Giuseppe Tamburello, prendono vita nell’introduzione alle “Fonografie realmontane” (1900)
e faranno nascere quel fonografismo che incontreremo nei poeti siciliani per
circa un trentennio e che talvolta è corteggiato ancora oggi, dai nostri poeti
contemporanei.


 In sostanza alla fine dell’ottocento c’erano alcune basi chiare per tutti:

 

1) Rottura col passato e con l’imitazione meliana. 2) Unica realtà la
Sicilia e il suo popolo.  3) Linguaggio differente per ogni poeta e quindi grafia diversa a seconda della zona linguistica. Di conseguenza un preconcetto: l’identificazione della poesia dialettale con la poesia del popolo scritta nello spirito del popolo.

 

Da tutto ciò possiamo capire su quali principi si lavorasse. Per il Martoglio la realtà siciliana fu in un primo momento quello della mafia catanese (‘O scuru ‘o scuru) ed il nostro si calò interamente nel gergo mafioso frequentando appositamente gli ambienti equivoci del tempo.


E fu proprio Martoglio che per primo portò l’innovazione degli articoli e delle preposizioni contratte, così come le pronunciava il popolo, e a seconda la necessità del verso. Allora, lu, la, li, divennero: ‘u, ‘a, ‘i, con l’apicetto davanti; a lu, a li, di lu, divennero: ‘o, ‘e, d’’u, tutte con l’apicetto davanti; ntra lu, ppi li, ccu la, divennero: ‘ntro’’o, pp’’i, cc’’a, con l’apostrofo e l’apicetto davanti.


 In seguito la realtà, per il Martoglio, fu il popolino catanese, la stessa Sicilia che rappresentò nelle raccolte che seguirono: Lu fonografu, L’omu, A tistimunianza e così via.

E citiamo un sonetto tratto dal libretto Lu fonografu, dal titolo Chiaccu di furca.


 

          - Ah vàja...dammi ‘n sordu! – Chi nn’ha’ a
fari?


 

         - Quantu m’accattu ‘n sordu ‘i
tricchi-tracchi!


 

         - Va’, va’, ca pazzu si’!...Non ti
stricari


 

         ‘n terra, sbirru, ca ‘i causi ti
spacchi!


 

- Dammillu!-
Oh, non mi fari quadiari!...


 

- Chjianci,
ca beddu si’, quannu ti ciacchi!...


 

- E
daccillu, n’o fari picciari!...


 

- Ci dugnu
‘n cornu!... A tia chi nnicchi nnacchi?


 

Ju ha’ a
dòrmiri, e si sècuta ‘a sunata,


 

vi ‘ncùcchiu
‘i testi a tutti dui, l’ha’ ‘ntisu?


 

- Ah, sì?...
Te’ cca, chiaccu di furca, pozza


 

         mi ti sparunu a scanciu ‘mmenzu a’
strata


 

         e ti portanu dintra tisu tisu!...


 

         Accura, sbirru!... Accura p’’a
carrozza!!...


Il Martoglio come si vede, non si era posto seriamente e scientificamente il problema dell’ortografia e della grammatica e di fronte alle tante teorie di trascrizione, anche se in un primo momento seguì il fonografismo, preferì una trascrizione che stesse in mezzo tra quella fonografica e quella tradizionale. I lettori lo capivano e questo per
lui era tutto.

Lo stesso Capuana, sempre nella sua lettera, ribadiva:

 

“Lei si è
comportato bene accettando pei sonetti veramente popolari la grafia fonetica
che dà colore, sapore, stavo per dire profumo, alle scene e spiccato carattere
ai personaggi; adottando poi l’ortografia più in voga pei componimenti raccolti
sotto i titoli
Storii d’amuri: “Amuri
di fimmina e
amuri di matri,
Cunfidenzi, Fimmini beddi...”      

 

     Ma, se facciamo attenzione, anche in
questi ultimi componimenti menzionati dal Capuana non c’è il rigore scientifico
di una koiné.

 

     E citiamo un altro esempio
analizzando un sonetto tratto dal libretto Fimmini
beddi
e intitolato Rispettu:


 

         Siti ‘na castagnedda ‘ntra la rizza


 

         Quann’è chiumputa e la vistudda
strazza,

         li capidduzzi di la vostra trizza

 

         sunnu spichi maturi, coti a mazza.

 

         Aviti l’occhi chini di priizza,

         li denti janchi comu la scumazza,

 

         ‘ntra la vucidda un tonu di carizza,

         ‘ntra lu guardari ‘n filu c’alliazza.

         Vampa di suli, ca lu focu attizza

 

         dintra li cori e fa la genti pazza,

 

         parrari, cu’ nni pò, di ‘ssa
biddizza?

         Pinsannuci mi càscanu li vrazza!

 

         Ci vòli, pri cantarla ccu ducizza,

         un rusignolu... ed ju su’ carcarazza!


 Come possiamo notare nel terzo verso della seconda quartina troviamo “un”
scritto per intero e nel verso seguente un è scritto “’n” con l’apicetto davanti. Nell’ultimo verso troviamo un verbo contratto: “su’” per “sugnu”, perchè
così gli necessita per formare l’endecasilabo. E’ chiaro a questo punto che la
sua era una koiné un po’ orecchiata perchè il suo tarlo non erano le regole
grammaticali ed ortografiche, ma un altro e lo dice espressamente ancora nella lettera inviata al Capuana:


     “... Io ho creduto e credo fermamente che il mandato del poeta
dialettale sia uno solo: quello cioè di rispecchiare, con sincerità di
vocaboli, di frasi e di locuzioni l’anima del popolo che parla il linguaggio
nel quale egli scrive... il caro popolo col quale mi sono, per anni ed anni,
confuso, lungamente indugiandomi a studiarlo e ammirarlo, per tentare di
renderne la grande anima nella sua integrità. Oh se vi fossi riuscito, anche in
parte! Potrei dire di non aver vissuto invano”.


Cosa intendeva Martoglio per “poeta dialettale”, e quale valenza dava al dialetto ci sembra chiaro. Per lo scrittore il termine “dialettale” si identifica col termine “popolare”, e tale fu il poeta Martoglio.


Il popolo gli ha risposto portando la Centona persino tra le mani dei
soldati, nelle trincee della prima guerra mondiale e tutt’oggi si ristampa
perchè piace ad ogni tipo di pubblico: appassionati del dialetto, studiosi ed
orecchianti. Noi non vogliamo togliere una virgola al grande successo di Nino
Martoglio, che seppe così bene calarsi nell’animo del popolo siciliano e
catanese in particolare. Ma ad avallare la nostra tesi sull’incoerenza ortografica, nella sua opera, prendiamo in esame ancora un’ottava che è la prima del dialogo tra l’autore e il suo libro, “a usu di prefazioni” ci dice.


 

- Centona,
si lu munnu allittricutu,

 

scienti e varvasapiu arruccatu,

 

doppu
tant’anni ch’ha’ jutu e vinutu

ancora, ca
ci si’ nun s’ha addunatu,

signu c’ha
jutu sempri senza ‘ndrizzu

 

ca ‘n ha’
saputu fari pruulazzu

 

ca si’ comu
un cagnolu appagnatizzu

 

chi ‘un àvi
rastu e nun cunchiudi un lazzu!..


In solo otto versi, troviamo due modi di scrivere il verbo avere apostrofato e tre modi di scrivere “non”. E potremmo continuare a fare centinaia di esempi per scoprire altre incoerenze. Scrive ad esempio “in mezzo” “’nmenzu” e
“’mmenzu”
indifferentemente, usa “’n” sia per “un” che “in” e addirittura non contratto; contrae parole e verbi a seconda della necessità del verso senza tenere conto dei dubbi che può suscitare in un lettore, specialmente se non siciliano. Quando noi diciamo nmenzu può significare immenso la lui lo usa anche per significare in mezzo.

Specialmente per chi non è siciliano non è facile!

 

     Oggi i tempi non sono più quelli
del Martoglio. La poesia siciliana si è imposta a livello europeo. Il siciliano
sembra finalmente entrare a far parte delle materie scolastiche. Come lo
insegneremo ai nostri ragazzi? Penso che il caos non vada bene in nessun campo.
Una lingua, se vuole considerarsi tale deve avere delle regole, una grammatica
normativa e un vocabolario che non lasci fuori alcun termine che appartenga alla
Sicilia. Bisogna rimboccarsi le maniche e studiare, studiare seriamente per
potere insegnare.

Per quanto riguarda la poesia il discorso è più complesso perchè ogni poeta
deve poter essere libero di portare, con la sua personale creatività, il
proprio bagaglio culturale, il proprio entroterra. Non si può dire questa è
poesia e l’altra non lo è, perchè non si conoscono i termini di origine
orientale od occidentale della nostra isola. La poesia siciliana, oggi, non è
l’equivalente di poesia popolare. E’ anche poesia popolare ma è senz’altro
poesia impegnata, è poesia lirica, è poesia d’élite.

 

Le regole nella lingua siciliana, come in qualunque lingua, sono necessarie e chiunque voglia scrivere le deve conoscere. Solo dopo lo scrittore, il poeta che ne ha le capacità le può trasgredire, può dettare leggi proprie.

Tutti noi, gli studiosi, i poeti, gli scrittori, coloro che amano le proprie origini siciliane, dovremmo avere la capacità di incontrarci, di scambiarci le nostre ricchezze, con molta umiltà, di convogliarle tutte in un unico tesoro per far sì che nulla vada disperso delle nostre splendide radici.


Mi chiedo allora e desidero proporre: perchè non far nascere un siciliano che sia il fior fiore di tutte le nostre parlate, perchè non dare delle regole normative, che possano essere capite da chiunque ci legge e possa così apprezzare le infinite risorse del nostro patrimonio linguistico? Qualche insigne studioso ha già lavorato in questo senso e pubblicato opere di grande interesse; ogni siciliano che voglia scrivere nella nostra lingua ha il dovere intellettuale di conoscere e studiare una buona grammatica, i grandi poeti del passato, i grandi poeti moderni e tutto ciò che riguarda la cultura siciliana.      

 

 



II PARTE CONVEGNO ASAS LINGUA SICILIANA :


 

Arturo Messina

 

Voglio leggervi il giornale, che c’è scritto oggi, però l’ho fatto uscire ieri: Libertà;
anche perché in questa maniera trovate due contributi, il mio e quello del vostro
carissimo amico Antonino Magrì; l’articolo è intitolato: Nel salone degli specchi della provincia regionale di Messina l’importante convegno. Come si scrive in siciliano? L’Associazione siciliana arte e scienza stamane con poeti e scrittori, per una comune ortografia (li sono le dolenti note!). Oggi, con l’intensificarsi sempre più
rapido delle comunicazioni, sotto tutti gli aspetti, il problema della lingua sta diventando un vero problema della lingua italiana perché sempre nuovi vocaboli
stranieri vengono adoperati nella conversazione di un certo livello, e soprattutto nelle pagine dei giornali e dei libri; una volta venivano definiti barbarismi da evitare, oggi se ne fanno un vezzo tanti scrittori e soprattutto i tanti giornalisti, ma non è che essi siano tutti laureati in lettere e contemporaneamente nella piena padronanza della lingua straniera, delle cui parole si fanno un vezzo a inserire scrivendo in lingua italiana, né della stessa lingua madre, le usano con sempre più spavalda disinvoltura con il rischio reale di non far capire ciò che scrivono e ciò che dicono, visto che non si degnano almeno di tradurne il significato. C’è persino chi scrivendo un romanzo in italiano, un giallo soprattutto, lo fa diventare sempre più giallo, inserendovi persino delle parole o addirittura delle frasi in dialetto, ne curasse almeno l’ortografia (cu’ s’ ‘a senti s’ ‘a sona!) e hanno addirittura il coraggio di dire che in questo modo si fa come aggiungere il parmigiano sui maccheroni.

Bene ha fatto quindi la Regione siciliana approvando l’inserimento nella scuola italiana, dello studio della lingua, della storia, delle tradizioni, delle arti della Sicilia, ciò grazie soprattutto al nostro deputato (vorrei aggiungere mio nipote), onorevole Enzo Vinciullo; e quello si che di lingua siciliana se ne intende, visto che nella sua classe (la mia), di cui egli era il migliore alunno quando era studente nel liceo scientifico Orso Mario Corbino a Siracusa, assieme alla professoressa Iole Rizza Cannarella (che il nostro carissimo Camilleri conosce), prese l’iniziativa di far tradurre in endecasillabi italiani diversi sonetti della martogliana Centona, e visto pure che prima di fare approvare la proposta che fecero trenta anni addietro senza riuscirvi gli onorevoli Ordile e Mattarella, egli da assessore comunale di Siracusa ha fatto pubblicare dal Comune (che poi l’ha distribuito gratuitamente a chi ha promesso di studiare la Lingua siciliana), la prima grammatica sistematica siciliana, come ho fatto la grammatica latina, dall’ortoepia all’ortografia, dal fonema al grafema, dall’analisi grammaticale alla logica dal periodo; anche nell’antologia, il sottoscritto ha corretto tutti quelli che ha inserito una ventina, lo vedete nella grammatica, come si dovrebbe scrivere quella parola, ecc…. all’analisi del periodo, all’antologia addirittura alla storia dei mestieri che non ha fatto nessuno, perché è un doppio libro, ci sono trenta mestieri illustrati da un altro mio alunno, Francesco Nanìa direttore di Tele Uno Tris (a Catania si vede Tele Uno Tris?), grande soprattutto finista; mestieri a loro volta descritti da altrettanti sonetti.

 

Se il problema della lingua italiana d’oggi, è già così problematico, quello della lingua siciliana lo diventa ancora di più, perché mentre ci furono quelli che della questione della lingua italiana dissero che essa era la lingua toscana e quel buon uomo di Alessandro Manzoni andò a lavare i panni in Arno facendo parlare tosco i milanesi, i comaschi, i bergamaschi come Renzo e Lucia, ci furono quelli che più opportunamente dissero che la Lingua italiana è il prodotto dei migliori scrittori italiani a qualsiasi regione appartengono e vedi caso che i migliori scrittori furono i siciliani come Giovanni Verga, come Luigi Capuana e via dicendo; il problema delle Lingua siciliana diventa ancor più problematico perché ci sono quelli che pur se cattedratici osano ed usano asserire che si scrivi comu si parra, (vedi la buonanima di Gulino, è storia, e io sono anche uno storico della Lingua siciliana, alunno sia di Bruno Panvin sia di Giorgio Piccitto, perché ho preso tre lauree, i bienni li ho fatti poi con loro facendo l’aiuto loro), non tenendo presente che ad esempio un milanese, o un veneto, o uno stesso fiorentino, non diciamo un romano o un napoletano, hanno una pronunzia molto diversa tra di loro, quando parlano in italiano, ed uno che ha girato tutta l’Italia e tutta l’Europa, se ne accorge se quello è romano, è toscano o è veneto, eccome se non se ne accorge, però scrivono tutti alla stessa maniera, ecco la koiné quantomeno ortografica, se non linguistica.

 

Noi siamo qui carissimi amici tutti quanti e in questo momento, siamo soprattutto qui per poter fare, eliminando i nostri personali punti di vista, il nostro egoismo, a cominciare da me, purchè si arrivi ad una koiné ortografica. Quando mi scrivono ‘ngagghi e mi tolgono l’aferesi, è questo un errore di italiano, quindi bisogna sapere prima bene l’italiano e poi passiamo al siciliano; bene diceva Giorgio Piccitto, guardate che bisogna fare l’ortografia razionale o ragionata, la traduzione interlineare
prima in italiano di quello che vogliamo portare poi in dialetto.

Bene ha fatto pertanto la benemerita messinese Associazione siciliana arte e scienza, presieduta da Flavia Vizzari, a invitare al convegno presso la Sala degli Specchi della provincia regionale di Messina in corso Cavour stamane i poeti e gli scrittori siciliani che hanno a cuore la lingua parlata in modo diverso in tutta la Sicilia, perché si abbia un unico modo di scriverla correttamente; ciò perché se scritta più correttamente sotto il profilo dell’ortografia si rende indubbiamente più comprensibile non solo a coloro che siciliani non sono, ma agli stessi siciliani che spesso si trovano in serie difficoltà leggendo un racconto o una lirica in lingua siciliana, perché non riescono a capirne il significato essendo scritto con le zampette, senza rispettare le regole di ortografia e di grammatica tante volte, perché spesso ad esempio vedo scritti senza le dovute aferesi, con l’apostrofo, i due articoli indeterminativi di italiano, si dimenticano di mettere l’aferesi e ci mettono l’apostrofo ad un e uno, perché pensano che la lingua siciliana, la poesia siciliana, sia popolare, degli analfabeti, no! Il mio maestro Bruno Panvin, l’ultimo libro 1989, i poeti italiani della corte di Federico II, i poeti italiani, quindi prima bisogna sapere bene l’italiano (non dico il latino e il greco, come il sottoscritto che sa solo leggere e scrivere, e sa un po’ di tutte le lingue, e ha preso la Laurea anche in storia e filosofia e lingue, quarto anno francese; però facevo il biennio, è chiaro, perché mentre aiutavo Enzo Maganuco storia dell’arte, perché è il mio mestiere critico d’arte
e la mia pagina è solo critica), parlare della costruzione.

 

Quando il presidente del centro studi di Lingua siciliana di Catania presieduto dal noto poeta Antonino Magrì inserito nella mia grammatica sistematica dove è detto uno dei più apprezzati poeti siciliani d’oggi e il migliore forse poeta dal punto di vista ortografico, parla della costruzione di una koinè, dice lui : <Parlare
della costruzione di una Koinè regionale ha senso?
Direi proprio di no, poiché il lavoro di “insigni” studiosi odierni che hanno formulato e diffuso per circa mezzo secolo le loro teorie di koinè non ha portato a tutt’oggi i risultati da loro sperati. Infatti gli scrittori e i poeti dialettali continuano a preferire la loro libertà espressiva piuttosto che uniformare la scrittura in un linguaggio artificiale e artificioso che
nulla ha a che vedere con la lingua parlata e tramandata dai padri. Ma forse
l’insuccesso del consolidamento di una koinè non è dovuto solo alla libertà di
poeti e scrittori sulla scelta del loro registro espressivo o sulla consapevolezza della inutilità di un linguaggio costruito e innaturale, direi piuttosto che l’atteggiamento niente affatto umile della maggior parte di questi studiosi dinanzi ad un tema di tale proporzione e delicatezza è stato determinante. Infatti, anziché incontrarsi in un dibattito democratico e costruttivo - come quello che stiamo cercando di fare noi - confrontando le loro tesi con spirito di reciproca collaborazione nella ricerca di un comune denominatore, questi studiosi hanno “sicilianamente” deciso di mettersi in
cattedra (spesso senza averne titolo) spacciando le loro convinzioni per verità
assolute e pontificando sé stessi come unici detentori di tali verità.

Quest’atteggiamento ha creato diverse correnti di pensiero con vari gruppi di
sostenitori in antitesi sull’una o sull’altra tesi; quindi ancora più
confusione, e la confusione è il nemico numero uno della koinè, in quanto la
koinè vive di ordine e di regole rigide.

Dunque oggi non è la koinè la strada da seguire, ma lo è il ricorso a comuni
norme ortografiche, magari utilizzando il sistema grafematico italiano >
la
sua opinione < poiché se esistesse un’unica e adeguata grafia delle parlate siciliane, riconosciuta ed adottata da tutti, molte difficoltà oggi esistenti verrebbero agevolmente superate.

Già nel 1995 Vincenzo Orioles scriveva: “La realizzazione di un sistema ortografico codificato è auspicabile non solo per chi fa letteratura, ma anche per chiunque faccia uso della lingua scritta” … >

 

Io gli avrei ricordato che nel 1881 ci fu il congresso proprio per l’ortografia e non vi potei partecipare quella volta … ne presi parte a un altro, quindi il problema è da più di cento anni che si pone, però fintanto che non si smussa l’egoismo di tanti, spesso non all’altezza di sostenere le proprie tesi, siamo sempre punto e daccapo.

 

<La realizzazione di un sistema ortografico codificato è auspicabile non solo per chi fa letteratura, ma anche per chiunque faccia uso della lingua scritta: se poi si addiviene all’introduzione del siciliano come materia d’insegnamento scolastico, l’esigenza diventerebbe
imperativa
.>

 

E come facciamo, uno insegna una cosa, un altro ne insegna un’altra, ecco perché da questi convegni carissimi amici deve uscire serenamente lasciando parte ciascuno di noi di contributo e di rinunzia, deve uscire realmente com’è che si scrive, come si passa dal fonema al grafema, il resto ripassiamo, soprattutto coloro che anche prendono i premi e ritengono che sia poesia popolare, ma che è popolare, chistu cca per esempio? Che è popolare!? Cu tutta ‘a cultura ca havi m’ ‘u chiamati popolari, poesia popolare ? No! Non erano scarpari, non erano varberi quelli della corte di Federico II a cominciare il notaio Jacopo, notaro voleva dire allora il ministro dell’istruzione di oggi, e via di seguito; quindi abbiamo molta umiltà nello stesso tempo anche molta disponibilità di arrivare a un minimo comune denominatore.

 

Mettiamoci dunque al lavoro con serenità, soprattutto con serietà e con molta umiltà. Grazie!

 

Questo lo lasciamo al presidente …



 



 



 



Riflessioni sull’utilità di una koinè regionale di Antonino Magrì (CT)

Parlare di “lingua siciliana” è arduo e fuorviante. Infatti una lingua vera e propria, uguale in tutta l’Isola, sia parlata che scritta, con una sua specifica e unica grammatica e una sua vasta letteratura che per conformità di struttura la consolidasse tale, non è mai esistita. Dalla Scuola Poetica Siciliana di Federico II di Svevia, dove ebbe inizio la nostra letteratura, al XV secolo circa, vi era una discreta coerenza ortografica tra gli ambienti letterari nostrani, soprattutto tra i poeti, e tale coerenza (inerente alla sola scrittura) si protrasse, seppure spesso zoppicante e a macchia di
leopardo, per qualche secolo ancora. Poi il toscano prese il definitivo sopravvento restituendo quella eroica, ma larvale, impalcatura linguistica al suo ruolo naturale di dialetto nella sua pluralità espressiva. Si, perché non esiste un unico dialetto regionale, ma centinaia di dialetti di un’unica matrice, ed ognuno esprime le radici di una popolazione locale. Infatti i moduli espressivi variano a secondo del luogo e delle dominazioni che ne hanno modellato il linguaggio, così che abbiamo variazioni, anche di inflessione oltre che di sintassi, tra il dialetto siciliano che si parla a Catania e quello che si parla a Palermo o a Caltanissetta, Ragusa, Messina, Agrigento, Siracusa, ecc.. Spesso persino nella stessa città ci sono inflessioni diverse a secondo la zona; per non parlare dei vari paesetti che a volte sono isole
nell’Isola.

Oggi gli scrittori e i poeti dialettali, nella maggior parte dei casi, scelgono liberamente di scrivere nel dialetto che è a loro più congeniale, ossia nella loro parlata locale. Ciò fornisce un’enorme ricchezza di informazioni per lo studio del patrimonio linguistico siciliano e dei popoli che hanno vissuto e dominato specifiche zone del nostro territorio; quindi questa scelta è di vitale importanza per la conservazione delle nostre radici storico-culturali: da ciò che fummo possiamo capire ciò che siamo e perché.

Ma allora parlare della costruzione di una koinè regionale ha senso? Attualmente direi proprio di no, poiché il lavoro di “insigni” studiosi odierni che hanno formulato e diffuso per circa mezzo secolo le loro teorie di koinè non ha portato a tutt’oggi i risultati da loro sperati. Infatti la stragrande maggioranza degli scrittori e dei poeti dialettali continuano a preferire la loro libertà espressiva piuttosto che uniformare la scrittura in un linguaggio artificiale e artificioso che nulla ha a che vedere con la lingua parlata e tramandata dai padri. Ma forse l’insuccesso del consolidamento di una koinè non è dovuto solo alla libertà di poeti e scrittori sulla scelta del loro registro espressivo o sulla consapevolezza della inutilità di un linguaggio costruito e
innaturale, direi piuttosto che l’atteggiamento niente affatto umile della maggior parte di questi studiosi dinanzi ad un tema di tale proporzione e delicatezza è stato determinante.

Infatti, anziché incontrarsi in un dibattito democratico e costruttivo
confrontando le loro tesi con spirito di reciproca collaborazione nella ricerca
di un comune denominatore, questi studiosi (non tutti!) hanno “sicilianamente”
deciso di mettersi in cattedra (spesso senza averne titolo) spacciando le loro
convinzioni per verità assolute e pontificando sé stessi come unici detentori
di tali verità.

Quest’atteggiamento ha creato diverse correnti di pensiero con vari gruppi di
sostenitori in antitesi sull’una o sull’altra tesi; quindi ancora più confusione, e la confusione è il nemico numero uno della koinè, in quanto la koinè vive di ordine e regole rigide.

Dunque oggi non è la koinè la strada da seguire (è però da perseguire), ma lo è
il ricorso a comuni norme ortografiche, magari utilizzando il sistema grafematico italiano, poiché se esistesse un’unica e adeguata grafia delle parlate siciliane, riconosciuta ed adottata da tutti, molte difficoltà oggi esistenti verrebbero meno.

Già nel 1995 Vincenzo Orioles scriveva: “La realizzazione di un sistema
ortografico codificato è auspicabile non solo per chi fa letteratura, ma anche
per chiunque faccia uso della lingua scritta: se poi si addivenisse all’introduzione del siciliano come materia d’insegnamento scolastico, l’esigenza si farebbe imperativa”
. Oggi quest’antico desiderio è diventato viva realtà in base all’art. 1 della legge approvata dall’Assemblea Regionale Siciliana mercoledì 18 maggio 2011: “La Regione promuove la valorizzazione e l’insegnamento della storia, della
letteratura e del patrimonio linguistico siciliano
(fate attenzione che la legge non parla di "lingua siciliana", ma di "patrimonio linguistico siciliano") nelle
scuole di ogni ordine e grado”
, legge voluta e approvata grazie alla determinazione di Nicola D’Agostino, vice capogruppo dell’Mpa a Sala d’Ercole, il quale è stato il primo firmatario del disegno di legge che, superato il vaglio del Commissario di Stato e dopo la pubblicazione sulla Gurs (Gazzetta ufficiale della regione siciliana), potrà iniziare l’iter per la sua prima attuazione.

Dunque è indispensabile, attualmente, entrare nell’ottica non di una koinè, ma
della realizzazione di un sistema ortografico codificato.

Certo, tale realizzazione sarebbe compito di coloro che ne hanno titolo a pieno
diritto, ossia le nostre Università e il Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, ma nella pachidermica attesa che l’ingranaggio si muova, data l’urgenza e il rischio di perdere questo agognato treno (che in Sicilia difficilmente passa due volte), ben venga l’impegno di studiosi e poeti nella realizzazione di una prima bozza, purché in umiltà e nella piena collaborazione reciproca tramite un dibattito critico serio senza protagonismi di sorta. Democraticamente parlando.



Nino Barone

 

Innanzitutto ci volevamo scusare per il ritardo, è il destino di questo raduno ogni anno qualcuno si perde, l’anno scorso è toccato a Giuseppe Li Voti e vedo qui con molto piacere, si è un po’ smarrito in mezzo alle montagne, quest’anno invece è toccato a noi che siamo stati inghiottiti dai luoghi dell’Alcantara e la cosa positiva è che abbiamo visto uno spettacolo più unico che raro, un paesaggio eccezionale, Motta Camastra da un lato, Castiglione di Sicilia dall’altro lato, con noi nel mezzo, quindi non tutti i mali vengono per nuocere, ci scusiamo per questo inconveniente.

 

Prima di cominciare il mio intervento consentitemi di manifestare la mia emozione, essere chiamato un attimino come dire, a relazionare in materia di lingua siciliana davanti a illustri professori che finalmente conosco fisicamente, ma che già li conosco lo stesso da una vita perché ho letto tutte le pubblicazioni di questi illustri signori per me è una grande emozione, anzi, per noi è una grande emozione e quindi siamo contenti per questo ci dovete un occhiale perché noi abbiamo perso la vista leggendo con molto piacere le vostre pubblicazioni.

 

Un caloroso saluto anche da parte mia a tutti gli intervenuti a questo secondo Raduno, firmato ed organizzato magistralmente da Flavia Vizzari, che ringraziamo per il suo impegno culturale e per la grande capacità di riunire, in occasioni come questa, personalità di tutta la Sicilia. Ancora una volta abbiamo accolto con grande entusiasmo l’invito di Flavia a questo convegno sulla Lingua siciliana che dimostra continuità e di essere un appuntamento annuale di grande rilevanza culturale per cominciare a costruire sopra le basi solide buttate da tanti studiosi siciliani contemporanei, (e qui, ce sono tanti rappresentativi ed illustri), una lingua siciliana più omogenea nella forma scritta.

 

Noi per primi da poeti dialettali (perché altro non siamo che questo), ci siamo posti tantissime domande su come scrivere in siciliano una parola, o una frase, e quale forma utilizzare per renderla più chiara al lettore, da sentire questo bisogno irrefrenabile di un confronto, serio e concreto, senza arroganze e senza protagonismi, per cominciare un lavoro che possa dare, anzi ridare, dignità alla Lingua siciliana; una lingua disegnata secondo la sua naturale evoluzione, meno arcaica, più figlia di questi tempi.

 

Il volumetto che abbiamo portato, e che vi verrà distribuito, dal titolo Cenni di
ortografia siciliana
, e che battezziamo in questo convegno, è il frutto di uno studio condotto in seno all’ALASD Jò di Buseto Palizzolo (Associazione di Lettere,
Arti e Sport Dilettantistico), che ha sostenuto e promosso il nostro impegno nello studio, la valorizzazione e la diffusione della lingua siciliana. Cogliamo
l’occasione per portare i saluti del presidente Rosa Magro e del responsabile
culturale Alberto Criscenti. In questa pubblicazione trattiamo, con molta umiltà, alcune argomentazioni, riguardanti l’ortografia siciliana che secondo noi, meritano di essere approfondite. Argomentazioni, peraltro, che sono state pubblicate su Epuca Nostra, mensile di cultura che ho fondato, diretto dal professore Giuseppe Ingardia e
dove interagiscono tantissimi autori siciliani, poeti, scrittori e giornalisti, qui ne vedo una su tutte che è Maria Bella che ogni tanto ci manda delle notizie che noi pubblichiamo con molto piacere. L’intento è quello di cercare ed aprire un confronto con quanti scrivono in siciliano e con quanti hanno studiato la lingua siciliana che ancora oggi nonostante tantissime grammatiche e pubblicazioni in materia, non gode di ottima salute. Facciamo nostre le parole di Pietro Tamburello riportate da Marco Scalabrino nella sua postfazione: “sappiamo tutti dove andare ma non siamo
concordi sulla via da seguire”;
allora forse, è arrivato il momento di seguire tutti la stessa via, attraverso il dialogo, il confronto, per giungere ad un sogno che abbiamo sempre inseguito, chiamato “Lingua siciliana”.

 

Noi desideriamo contribuire a questo grande progetto di rivalutazione attraverso il nostro impegno, il nostro studio, ma soprattutto attraverso il nostro amore e la nostra passione, desideriamo essere poeti attivi, non solo nella produzione di poesie, ma anche nella valorizzazione della lingua siciliana, mettendo a disposizione tutte le nostre risorse. Non intendiamo sottrarci a qualsivoglia incontro, che possa favorire questo processo di sviluppo e di crescita per una ortografia condivisa, che non
stravolga, ma indirizzi i poeti, gli scrittori, verso una unica forma che dia alla lingua siciliana il prestigio che merita.

 

Penso (e concludo il mio intervento), che questo sia il presupposto di tanti noi che qui ci siamo riuniti: avere una ortografia condivisa. Nessuno, e voglio sottolineare nessuno, e penso neanche chi qui ha relazionato prima di noi e chi verrà dopo, vuole stravolgere le parlate, le peculiarità locali dei dialetti che ci sono, ma una ortografia condivisa dà una forma migliore per chi legge una volta e qui Maria Bella che e come dire è discendente dei poeti cantastorie. Il poeta … le poesie venivano trasmesse oralmente venivano addirittura tramandate di generazione in generazione solo oralmente, cioè solo a memoria, mai scritte; oggi invece c’è il bisogno di
scrivere, di scrivere in una forma migliore perché oggi il poeta è più colto rispetto a quello di un tempo e vuole essere letto, almeno noi da poeti perché voglio sottolineare ancora una volta non siamo degli studiosi, non siamo dei dottori siamo solamente dei poeti che come ripeto per primi ci siamo posti delle domande su come scrivere questo benedetto siciliano; questo ci ha smosso un attimino. È vero, siamo giovani ma questo e abbiamo molto entusiasmo vogliamo confrontarci, vogliamo sapere, imparare e siamo qui a questo Convegno e ringrazio ancora una volta Flavia Vizzari che ci ha invitato, proprio per imparare.

 

… Noi la ringraziamo e quindi accetteremo qualsiasi materiale che possa un attimino far crescere noi e a chi ci riferiamo, con molto piacere volevo concludere e poi passo la parola al mio compagno di sempre, Giuseppe Gerbino,

 

Volevo dare un contributo in dialetto che rende un po’ l’idea di quello che ho detto pocanzi, recitandovi :

 

SCRIVEMU SULU PENNULI?

 

Si lu princìpiu è scrìviri
scrivemu ‘n sicilianu
sicunnu certi règuli!
Poi, tuttu, manu manu

sviluppa finu a gràpiri
na strata di davanti
chi porta, certu, a stènniri
prugetti ‘ntirissanti.

Ma si scrivemu, càspita,
a comu veni veni
ci va, picciotti, ‘n pèrdita
cu’ leggi e su’ vileni

picchì si trova a lèggiri
parlati assai riversi,
paroli ‘ncumprinsìbili
e dopu ‘i primi versi

ti cancia, certu, pàgina
e lestu lu firrìa
oppuru chiudi e scòtula
lu libru di puisìa!

Allura, dicu: càvulu!
É chistu l’obiettivu?
‘Ncucchiari sulu pènnuli?
Nun pensu! E picchì scrivu?

Mi lu dumannu e màsticu
vuccuna amaru feli
picchì vulissi sùbitu
la “lingua” ‘n capu ‘i celi

chi ognunu po cumprènniri,
pi ognunu tali e quali!
Na lingua, amici, ‘n pràtica
“tanticchia” univirsali.