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La lingua siciliana:

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PER IL SEMINARIO di LINGUA SICILIANA ASAS: 

 

L'Articolo determinativo:

 

In lingua siciliana gli articoli determinativi sono tre: La, Lu, Li;

 

essi si apostrofano davanti a parola che inizia per vocale, ma vanno evitate le forme aferesate poichè 'a, 'u, 'i, sono forme vernacole.

 


L'Articolo indeterminativo:

 

In lingua siciliana esistono due articoli indeterminativi: Un, e Una

 

In Un sarebbe meglio evitare l'aferesi per non creare confusioni con la preposizione semplice In, inoltre l'esigenza di non scrivere la U non è per tutti, anche nel messinese non si ha l'annullamento totale della U, infatti noi PRENDI UN COLTELLO lo diciamo "Pigghia un cuteddu"; ovviamente quindi Un non viene mai apocopato.

 

Non esistendo nella Lingua siciliana Unu, in quanto tipico del napoletano, abbiamo invece Una. Il fatto che in maggioranza viene pronunziato 'Na non da' giustificazione valida per l'abolizione dell'apicetto dell'aferesi ('Na), la scrittura non dovrebbe essere influenzata dalla parlata. 

Testi di Antonio Veneziano, Mariano Bonincontro, Girolamo D'Avila, ecc. della fine del '500, ci lasciano versi con l'articolo Una, per niente desueti:  "vistuti a una divisa / cuss'iu una vota ti vidissi / nata d'una billizza /parai una pupa ... "

 

Per aferesi e apocope (detta anche troncamento), che tanti vanno eliminando, vale la regola grammaticale diffusa nei dialetti in genere.

 

Flavia Vizzari

 

13 giugno 2012.



IL SOGNO DI UNA KOINE’ COMUNE ORIGINE E SVILUPPO DELLA
LINGUA SICILIANA

 

di Filippo Scolareci:

 

Prima ancora di introdurci nella disamina dell’origine e il suo relativo sviluppo della nostra Lingua Siciliana è doveroso effettuare un breve excursus storico sugli insediamenti umani che si sono succeduti nelle nostra Isola, in quanto proprio “dalla storia” scaturisce la disciplina che si occupa dello studio del passato dei nostri antenati, tramite l’uso di fonti, anche orali, per trasmettere il sapere, gli eventi e le loro vicissitudini che interagirono in quel periodo con il resto dell’umanità, costituendo così il primo vero “racconto letterario”.

 

La “storia” spesso simboleggia la produzione di molti atti che connettono ed interagiscono tra di loro, che hanno potenzialità di trasformazione e di conoscenza, che riescono ad introdurre, in uno schema temporale, il trascorso, il presente ed in prospettiva il futuro (perché sappiamo, tra l’altro, che la storia si ripete), identificandone principalmente le fonti.

 

Per quanto riguarda le fonti sulla storia della nostra terra, il più sicuro fra i testi antichi è un “capitolo”dello storico greco Tucidide (vissuto tra il 460 ed il 397 a. C.), il quale con i suoi appunti illumina il lontano passato della Sicilia, mentre ad alcuni antichi autori dell’epoca, come poeti e cantori, non si riconobbe loro un vero valore scientifico, in quanto i loro racconti e le loro poesie venivano considerate soltanto delle favole concepite e localizzate in un secondo tempo dai coloni greci (cfr. pag. 9 della Storia della Sicilia di Jean Hurè, pubblicato nel 1997 dalla Casa Editrice B & B).

 

La nostra “Terra”nella preistoria è stata abitata ancor prima del Paleolitico superiore, circa 50.000 a. C. dai popoli Preellenici (indigeni, forse provenienti dal continente africano), i quali vivevano da nomadi in grotte naturali o scavate nelle roccia, vedi Pantalica o quelle di San Teodoro ad Acquedolci (Messina) scoperte nel 1859 dal Barone F.Anca, dove successivamente furono trovati i resti di Thea (la donna più antica della Sicilia), a Levanzo (nelle isole Egadi) e le grotte dell’Addura a Palermo, ma che in seguito e particolarmente nel XIX secolo furono riconosciuti e suffragati dalle importanti scoperte archeologiche, condotte dal grande studioso ed archeologo
Paolo Orsi (il quale venne definito con l’appellativo di Schliemann della Sicilia) e da Bernabò Brea, il grande studioso della preistoria della Sicilia e delle sue isole.

 

Pertanto, nonostante quanto sopra detto, per quanto riguarda il lunghissimo lasso di tempo che va dalla comparsa degli insediamenti umani sull’Isola, fino al momento in cui i greci vi introdussero la scrittura, non essendoci assolutamente pervenute delle tracce scritte (tranne qualche incisione d’arte rupestre, che ornano le pareti delle stesse grotte, con delle graffiti e pitture di animali ed uomini, uniti in un legame ancestrale, non molto decifrabili ma ancora in corso di studio), e quindi possiamo per il momento interpretare, soltanto gli eventi relativi a queste prime civiltà preclassiche, solo e soltanto attraverso quei resti dei manufatti o le loro modificazioni degli ambienti naturali, pervenuti a noi attraverso accurate ed a volte
fortuite ricerche.

 

Ma se vogliamo andare ancora molto più indietro e prendere come base anche i racconti della Mitologia, i suoi primi abitanti furono anche i Ciclopi ed i Giganti. Per questo motivo, infatti Il grande Cantore e Poeta “Omero” ha definito la Sicilia con l’appellativo di LESTRIGONIA, che vuol dire la “Terra degli Alti Monti e degli Uomini Alti”. Pertanto, da quel momento in poi nasceva il periodo dei Miti, che in seguito affascinò e attirò moltissimo, nei nostri lidi, tutto il mondo Greco e non solo.

 

Conseguentemente a quanto precede, nell’era Neolitica si ha un grande cambiamento, come sostiene sempre il nobile-storico greco Tucidide, tra il terzo ed il primo millennio a. C., la nostra Isola, che come riferito era già abitata da popolazioni “autoctone”, venne occupata in modo progressivo prima dai Sicani, poi dai Siculi ed in seguito dagli Elimi, dai Fenici, e dai Greci. Ma come ben sappiamo, dopo questi popoli giunsero anche i Romani e cosi via, fino a tempi più recenti. Tuttavia, solo per brevità, daremo cenno soltanto per i primi quattro ceppi già sopra citati:

 

- I SICANI, che appartenevano ad un ceppo di probabile estrazione mediterranea (forse dalla Libia o provenienti dall’Asia minore, con l’inserimento di uno sparuto ramo Ligure), giunsero in Sicilia circa 2.700 anni a. Cristo, guidati dal loro capo Sicano.

 

Lo stesso storico Tucidide (nel libro VI.2) sostiene che l’origine dei Sicani era l’insieme dei ceppi sopra citati e formavano un unico popolo, con la stessa provenienza comune e cioè dalla Iberia. A comprova di quanto detto è noto che nel 3000 a.C. la Sicilia ebbe dei contatti con il popolo dei nomadi chiamato “popolo dei bicchieri campaniformi” proveniente dalla Spagna, nel periodo dell’età del bronzo (2100-2000 a. Cristo circa), ma si trattava soltanto di contatti commerciali periodici.

 

Lo storico Ettore Pais (nel suo libro “Storia dell’Italia Antica”), nel confermare questa tesi, fa notare la somiglianza dei nomi di alcune località siciliane quali Eryx (Erice), Entella e Segesta, con quelli di Lerici nel golfo di La Spezia, Sestri ed il vicino fiume Entella, citato dal poeta Dante Alighieri. Anche lo scrittore Antonio Sciarretta, continua su questa ipotesi nel suo libro “Liguri, Enotri e Sicani in Toponomastica d’Italia” pp. 174-194, pubblicato nel 2010 a Milano dalla casa editrice Mursia.

 

In precedenza, durante i loro spostamenti migratori, si erano stanziati nel periodo Eneolitico (tra il VI ed il III millennio a. C.) in Iberia (l’attuale Spagna) nei pressi del fiume Sicano (oggi non più esistente), ma sono stati costretti ad andare via perchè dominati e scacciati dalla parte preponderante e più forte dei Liguri, in quanto si trattava di un popolo abbastanza mite che non era molto avvezzo all’uso delle armi, anche se lo storico Tucidide ha dichiarato che quando si trovavano in battaglia diventavano molto violenti, ma questo fa pensare che la loro presunta aggressività potesse essere solo un modo per potersi difendere e mantenere la loro libertà dagli
attacchi degli altri popoli.

 

Avevano una certa organizzazione sociale, impostata con l’aggregazione di
tutti i villaggi ed ogni villaggio aveva un proprio capo.

 

Il loro sostentamento principale era l’agricoltura e la pastorizia. Non mangiavano carne di animali, ma la commerciavano. Coprivano i corpi dei morti con giallo ocra e li bruciavano su pile di legno;

 

- I SICULI, appartenevano ad un gruppo di origine indo-europeo. Secondo lo storico Filisteo di Siracusa, giunsero in Sicilia Nel XIII secolo a. C., guidati dal loro re Italo e da suo figlio Siculo, all’incirca tre generazioni prima della guerra di Troia, dopo essere stati cacciati dalla penisola italica dagli Opici.

 

Proprio per sfuggire a questi ultimi, lo storico Tucidide asserisce che riuscirono a passare in gran numero lo Stretto di Messina con delle buone zattere, costruite per affrontare e resistere alle forti e pericolose correnti marine che da sempre separano le coste della Calabria e della Sicilia.

 

Era un popolo abbastanza organizzato anche sotto l’aspetto militare. Infatti, per preservare la propria sopravvivenza, dovettero scontrarsi con i Sicani, che, in modo graduale, confinarono nella zona centrale ed occidentale dell’Isola, mentre loro occuparono le zone più fertili. Invece secondo lo storico Diodoro, per quanto riguarda i Sicani, si trattò invece di una fuga per le frequenti eruzioni dell’Etna.

 

Oltre ad essere ottimi guerrieri, conoscevano la navigazione e portarono anche con loro l’uso del cavallo (che utilizzarono ampiamente come mezzo di trasporto) e la lavorazione del rame ed erano anche degli ottimi cacciatori di selvaggina e buoni agricoltori (coltivavano il grano e la vite), bravi pescatori ed abilissimi artigiani.

 

Credendo nell’immortalità dell’anima praticavano un profondo culto dei morti che usavano onorare con solenni riti funebri ed i corpi dei loro defunti venivano seppellite in tombe scavate nella roccia, tipo forno (di probabile origine orientale, come indicherebbe lo stesso sistema dei ritrovamenti di altre similari tombe in Palestina, nel Peloponneso ed a Creta, cosi come viene riportato a pag. 63 dallo studioso Luigi Bernabò Brea nella sua pubblicazione “Sicilia prima dei greci”). Divennero ben presto il popolo più numeroso ed ancor più forte e cambiarono il nome dell’Isola da Sicania in Sicilia, in onore del loro condottiero;

 

- GLI ELIMI, erano un antica popolazione di probabile provenienza dal vicino Oriente, forse dall’Anatolia (Troia), i quali si stanziarono nella parte nord-occidentale della Sicilia, poco distanti dalla costa, fondando Segesta, Erice, Entella ed in parte Solunto. Intrattennero buoni rapporti con i vicini Fenici dell’Isola di Mozia, con i quali molto probabilmente siglarono un patto di non belligeranza, mentre convissero in amicizia con il popolo confinante dei Sicani. La loro economia si basava sulla coltivazione di un cereale povero.

 

Secondo il mito, Elimo era un principe troiano, figlio di Anchise e fratellastro di Enea, mentre qualche altro autore asserisce che era lo stesso Enea, che in Sicilia aveva assunto il nome di Elimo. La loro organizzazione civica era basata come una federazione religiosa. Nella zona di loro appartenenza si parlò una lingua che divenne una via di mezzo tra l’Elimo, il Sicano ed il Fenicio (che era una lingua semitica, pur tenendo presente che la presenza del popolo Fenicio in Sicilia ebbe un carattere non continuo, essendo più limitato agli insediamenti commerciali. Soltanto intorno al 400 a. C., con l’arrivo nell’Isola dei Cartaginesi, durante la seconda e terza campagna siciliana, riprese con un certo vigore la parlata semitica, che tuttavia nel
tempo non ha lasciato quasi nessuna traccia).

 

- I FENICI, si stanziarono nella zona estrema della Sicilia occidentale, come Palermo (che loro chiamarono “Mabbonath”), Solunto, San Pantaleone (vicino Marsala) e la piccola fortificata Mozia, che ritennero adatte ed ottime per i loro scambi commerciali. L’infiltrazione fenicia in terra siciliana non è datata in modo certo, ma il loro insediamento in quella parte occidentale si può calcolare che sia avvenuto quasi in contemporanea con l’arrivo dei greci, nel resto della Sicilia.

 

La difficoltà a precisarne la sua storia sul suolo siciliano, derivano non soltanto dalla scarsa documentazione, ma dal tipo di organizzazione politica che, sebbene aiuti la ricostruzione più dettagliata delle singole città, ma non aiuta quella unitaria come stato.

 

Con tutta probabilità, il nome di questo popolo deriva dal greco “Phoinix” che significa rosso, in relazione alle stoffe di colore purpureo da essi prodotti. Questo colore veniva estratto da un mollusco (Murex, bocca rossa), il quale divenne la principale fonte dei loro lauti guadagni, in quanto le stoffe, lavorate con questo colorante, venivano considerate molto pregiate ed erano esclusivamente riservate ai Re, ai Patrizi ed ai dignitari di corte ed al Senato di Roma.

 

Tuttavia gli stanziamenti fenici non si limitarono soltanto alla parte occidentale della Sicilia, ma anche in tutto il Mediterraneo. Intorno al bacino di questo mare i Fenici divennero gli intermediari preferiti tra gli scambi commerciali che avvenivano tra l’Oriente e l’Occidente, infatti si collocarono anche a Malta, Gozzo e l’isola di Pantelleria.

Proprio per la loro provata esperienza vennero anche ingaggiati dal faraone Necho (intorno al 600 a. C). per un viaggio esplorativo intorno all’Africa.

 

Inventarono l’ancora moderna, che in precedenza era costituita solo da una semplice grossa pietra legata ad una fune che veniva gettata in fondo al mare, ma che certamente non avrebbe potuto garantire in modo assoluto la stabilità dell’imbarcazione.

 

Si racconta inoltre che, gelosi della loro supremazia mercantile sul mare, per scongiurare gli altri popoli ad intraprendere viaggi navali commerciali, tenevano ben segrete le loro rotte, che di giorno venivano seguite con l’adozione del “punto di riferimento” in relazione alle distanze dalle coste, mentre di notte si orientavano con molta facilità osservando la Stella Polare che allora era già nota come la “Stella Fenicia” ed inoltre inventarono delle leggende terribili per allontanare la concorrenza. Infatti sono stati loro per primi a diffondere l’esistenza dei due mostri marini di “Scilla e Cariddi” che affondavano tutte le imbarcazioni che si trovavano ad attraversare lo Stretto di Messina.

 

A questo punto, dopo avere fatto molti passi a ritroso nei millenni che furono testimoni degli insediamenti umani e la nascita della civiltà nella Sicilia, adesso ci introdurremo in punta di piedi per risalire alle origini della Lingua Siciliana.

 

Certamente risalire le sue origini non è una cosa abbastanza semplice, in quanto difficilmente si potrà venirne fuori dal campo delle ipotesi, però non ci si deve assolutamente scoraggiare, avendo un punto abbastanza fermo come l’inserimento nel Libro Rosso da parte dell’Unesco che ha considerato la Lingua Siciliana “non in pericolo”, essendo abbastanza parlata con estrema continuità, facilmente trasmissibile ed assimilabile dalle nuove generazioni.

 

Infatti, lo studioso Francesco Paolo Perez avanza la tesi che la sua stratificazione indelebile di questa nobile lingua con le sue forme più essenziali è scaturita dall’insieme di quei popoli, di razza antichissima italiana e non, che sono arrivati sul suolo siciliano moltissimi secoli prima della fondazione della città di Roma.

 

Per quanto possa apparire abbastanza strano, l’Idioma Siculo ha il privilegio di essere stato considerato una Lingua romanza al pari della Lingua Italiana, del Francese, dello Spagnolo, del Portoghese, del Catalano ed ancora del Rumeno, le quali nel tempo sono tutte scaturite dal passaggio dalla Mater Latina ad una “volgare”, che poi si sono completate in massima parte nelle linee e nelle forme grammaticali, nel periodo medievale.

Inoltre, bisogna anche precisare che la Lingua parlata da un popolo non è mai statica, ma è sempre inserita in un sistema dinamico, che muta in continuazione e quella che viene parlata e si scrive in un determinato momento storico è il risultato di una miscellanea di componenti linguistiche, aventi origine diversa, e tra questi componenti ha una notevole importanza la migrazione dei popoli che, ogni qualvolta si spostano da un territorio ad un altro, portano nel luogo dove vanno ad insediarsi una parte del loro idioma, ed in modo graduale, ed in misura più o meno rilevante, si mescola con quello dei già residenti.

 

Secondo le varie teorie ed ipotesi che gli studiosi hanno portato avanti in merito all’origine ed alla sua evoluzione, quelle che ci sembrano degne di essere poste alla giusta attenzione, sono:

 

- Siciliano, come Lingua già esistente ed anteriore al Greco ed al Latino;

 

- Siciliano, come l’insieme di quelle sopra dette con l’intromissione della Lingua Araba;

 

- Siciliano, come Lingua mescolata con il Latino in tempi precedenti alla conquista romana;

 

- Siciliano, scaturito dall’insieme di quella già esistente e l’inserimento di neo-romanizzazione dopo la sconfitta e la cacciata dei Musulmani dal suolo della Sicilia;

 

- Siciliano, scaturito dall’introduzione di alcune parole Francesi e successivamente Spagnole.

 

Unitamente a queste ipotesi di sopra citate, ci sembra giusto segnalare anche la teoria secondo la quale:

 

Il popolo dei Siculi di estrazione indo-europea, dopo essere stati per un periodo in Europa, giunsero in Sicilia, nel XIII sec. a. C., guidati dal re Italo e dal figlio Siculo, erano in possesso di un loro preciso Idioma, che era completamente differente da quello dei Sicani. Pertanto, in considerazione di ciò, la loro Lingua (molto ricca ed elaborata e più perfetta del Greco e più copiosa del Latino) doveva essere, se non precisamente il Sanscrito, ma una che in certo qual modo aveva una sua derivazione.

 

Tuttavia, questa teoria, dopo accurate ricerche da parte del Sig. Alfredo Rizza (appassionato di archeologia), sono state confermate dal Prof. Enrico Caltagirone (cfr. la sua pubblicazione “La Lingua dei Siculi” edizione 2005 della casa editrice Marna) in merito alla decifrazione di uno scritto che si evidenzia sotto il fondo del Vaso (in linea con le figure dipinte sullo stesso) che è stato trovato a Grammichele (CT), che si trova ben conservato nel museo Paolo Orsi di Siracusa, che risale al periodo dei Siculi e che non ha alcuna corrispondenza ortografica o fonetica né con il greco antico né con il latino.

 

Inoltre queste tesi sono anche avallate dalla vicinanza linguistica, tutt’oggi in uso nei nostri dialoghi con oltre centinaia di vocaboli e da altre interessanti coincidenze delle quali qui si riportano per brevità solo alcuni esempi:

 

- Ammeri o annari, viene dalla radice = AM che vuole dire: andare verso;

 

- Luci, viene da Ruci = che vuole dire: luce o illuminazione;

- Prescia, viene da Presha = che vuole dire: urgenza;

- Sciara, viene da ksara = che vuol dire: fluido che scorre (l’insieme delle lettere “Ks” si legge sci).

Comunque sia, non deve essere assolutamente trascurata l’evidenza che la nostra Lingua, attualmente composta da 22 lettere (anche se anticamente venivano usate anche le letttere X e il K), utilizza come il sanscrito solamente le vocali “a”, “i”, “u” ed inoltre rifiuta, in modo assoluto, sia la “e” che la “o” atone, pertanto se queste tesi, ancora in corso di approfonditi studi, verranno scientificamente provate e suffragate da ulteriori ritrovamenti, sicuramente ci troveremo di fronte alla scoperta del secolo.

 

Quando, nel tempo, la Sicilia è stata sottomessa dai Greci, giunti in gran numero, dietro una forte spinta migratoria in cerca di nuovi lidi da colonizzare, i siciliani furono costretti per loro necessità ad accoppiare il loro linguaggio con quello dei nuovi dominatori, ma lo espressero con la fonetica a loro più congeniale e naturale e cioè con dei suoni retroflessi, tipo stile Bedda Madri o Turriddu che in siciliano quelle “T” e quelle “D” sono pronunciate più verso il palato molle e quindi anche noi, loro eredi, quando ci esprimiamo in Lingua italiana, proprio per questa caratteristica, si viene riconosciuti come “Siciliani” in ogni luogo e da tutti.

 

Ma questo non deve essere considerato come vergogna, perchè ciò indica che la nostra origine discende da gente di antica e nobile civiltà. Malgrado ciò, purtroppo si è diffusa la convinzione che parlare in “dialetto” sia poco raffinato, per niente bello nella sua orecchiabilità e persino segno di elevata ignoranza.

 

Per quanto sopra detto, sulla base di un giudizio molto discutibile si è prodotta e diffusa una specie di graduatoria, secondo la quale il fiorentino è “dolce”, il veneziano è “piacevole”, il romanesco è “simpatico”, mentre il siciliano è “orribile”. Tuttavia, se ci si ferma un attimo a pensare, non si può non notare che, nel nominare gli altri dialetti si fa riferimento alle città di origine, come: veneziano, fiorentino, romanesco e cosi via di seguito.
Mentre, quando si parla del nostro dialetto, inteso come Lingua, non vengono citate le città come messinese, catanese, trapanese, palermitano, siracusano, agrigentino, ennese, ragusano e nisseno ma soltanto di “Siciliano”, pur tenendo in considerazione il loro diverso accento fonetico che caratterizza, ma non con molte difformità, il modo di parlare nelle altre provincie.

 

Questa peculiarità trova la sua spiegazione nel fatto che a livello nazionale il “Siciliano”, prima ancora di essere stato considerato soltanto un dialetto regionale, è stato ed è una vera “Lingua”(come già sopra evidenziato) e con molta probabilità, forse è la più importante delle altre lingue o dialetti delle altre regioni, che oltre a diffondersi per ben due secoli in buona parte del sud Italia, come in Calabria e nel Salento, proprio dalla lingua siciliana del Duecento si sviluppò il nostro Idioma nazionale.

 

Infatti nel 1220, sulla forte spinta di una complessiva rinascita culturale, nasce a Messina una associazione di Poeti con l’appellativo di “Accademia” e successivamente, sotto i buoni auspici di Federico II (che per la sua lungimiranza, non solo nel campo letterario, è stato definito con l’appellativo di “Stupor Mundi” e “Mirabiljs Mutator”) questa “Accademia” venne trasferita presso l’ambiente colto e raffinato della “Magna Curia” di Palermo, in quanto il fulcro del Regno di questo nobile mecenate fu proprio dentro la fantastica Corte Siciliana di Palermo, nella quale vennero accolti artisti di ogni genere e scienziati provenienti da tutta l’Italia.

 

Tra i letterati non mancarono i poeti che rivoluzionarono la “Poesia”, creando nuove regole e modalità perseguite successivamente dai poeti di tutta l’Europa. L’esempio più eclatante è il “Sonetto”, composto da due quartine e da due terzine. L’ideatore di questa fortunata forma metrica fu Jacopo da Lentini, definito anche un vero capo stipite per l’abbondanza della sua produzione poetica.

 

Di questa Scuola Poetica (che nel 1874 venne definita “Scuola Poetica Siciliana” dallo studioso tedesco Alfred Gaspary, il quale pubblicò un volume in merito) che fu molto attiva dal 1220 al 1266, facevano parte degli intellettuali che ricoprivano cariche di prestigio ed importanti ruoli nell’ordinamento del Regno di Sicilia, come Jacopo da Lentini (come già detto inventore del Sonetto, che svolse in quel periodo, per parecchi anni, la sua principale attività come Notaio nella città di Messina), Guido delle Colonne (Magistrato messinese), Filippo da Messina, Nina da Messina (una nobildonna, che fu la prima poetessa italiana), Oddo delle Colonne (Alto funzionario messinese), Stefano Protonotaro (messinese), Ruggieri d’Amici (messinese, che ricoprì l’incarico di Giustiziere Reale di Sicilia), Mazzeo o Matheus di Ricco (messinese, Notaio e membro dell’Istituto del notariato), Tommaso di Sasso
(messinese), Ranieri e Ruggerone (palermitani, valletti imperiali), Cielo d’Alcamo (anche lui per un certo periodo visse a Messina), Folco Ruffo (un nobile calabrese, in servizio presso la Corte siciliana), Rinaldo d’Aquino (falconiere della Corte Reale, si pensa che appartenesse alla famiglia di San Tommaso), Pier delle Vigne (di Capua, con l’incarico di Magistrato della Magna Curia), Arrigo Testa (toscano), Compagnetto da Prato (toscano), Jacopo Mostacci da Pisa (toscano, che visse molto tempo a Messina), Federico II ed il figlio Manfredi, Paganino da Terzana, Giovanni di Brienne, Re Enzo, Folco di Calavra e Percivalle Doria (ligure, Podestà di diverse città ed anche Vicario di Manfredi in Romagna, ma che in ordine di tempo fu quasi uno degli ultimi poeti di questa Scuola, che in seguito venne chiamata “Scuola Poetica Siciliana”.

 

In sostanza, se consideriamo anche Jacopo da Lentini, che svolse per diverso tempo la sua attività di Notaio nella città dello Stretto, di questi poeti 9 erano messinesi, mentre il resto erano 2 palermitani, 1 di Alcamo, 1 calabrese, 1 ligure, 1 di Capua, 1 di Brienne (Francia) ed altri della Toscana e della Romagna, i quali nel 1305 vennero ampiamente elogiati da Dante Alighieri nel suo “De Vulgari Eloquentia”, primo vero trattato sulla Lingua e sulla poesia dell’epoca, nel tentativo di volere individuare un Volgare più evoluto, indicandone l’attività precorritrice, celebrò la superiorità del
siciliano e riconobbe alla Scuola anzidetta di essere stata l’unica erede, a pieno diritto, molto più evoluta nei confronti dei rimatori provenzali per l’uso di un linguaggio molto più elaborato ed il riconoscimento della scissione definitiva tra la poesia e la musica, con il relativo abbandono delle rime cantate, precisando altresì in modo abbastanza chiaro che i rimatori italiani del Duecento considerarono e riconobbero come loro lingua base solo il Volgare siciliano.

 

Nel contempo lo stesso Dante Alighieri ammirò moltissimo la lungimiranza
e la magnanimità di Federico II (personaggio affascinante dal grande spessore
politico e culturale, che riuscì a dare vigore ed orgoglio alle genti del Sud Italia), il quale seppe dare in eguale misura anche un grande impulso alle conoscenze delle materie tecniche scientifiche, oltre ad avere saputo alternare la distensione e la comprensione del punto di vista altrui, senza esitare ad utilizzare, nel caso fosse stato necessario, anche il pugno di ferro.

 

Quando questo nuovo modo di scrivere dei poeti della Scuola Siciliana si diffuse, tra l’altro in breve tempo, sostituendo il provenzale, con il “Volgare di Sicilia”, quasi tutti si cimentarono a seguire questo nuovo modo di poetare.

 

Infatti, il modello siciliano acquistò ben presto grande prestigio e solamente dopo la morte di Federico II (13 dicembre del 1250) e di Manfredi (nel 1266) ed il conseguente graduale tramonto del crollo della monarchia Sveva, i rimatori siculo-toscani di transizione poterono accogliere questa eredità e costituire prima a Bologna e poco dopo a Firenze il movimento del “Dolce Stil Nuovo”, termine che fu ricavato dal ventiquattresimo canto del “Purgatorio” dello stesso Dante Alighieri, nel quale l’autore parla durante il suo incontro con il rimatore Bonagiunta Orbicciani di Lucca (allievo-seguace di Guittone d’Arezzo, religioso e fine poeta con ottima conoscenza della Lirica Siciliana), al quale esponeva la loro nuova poetica, che in ultima analisi
altri non è che il completamento di un processo culturale che ha avuto inizio presso la “Magna Curia” di Federico II, pur se vennero aggiunti temi sociali con rime dolci e piane, unitamente ad un vocabolario più ricco ed astruso di dialettalismi toscani, provenzali e latini.

 

Tuttavia, nonostante quanto appena detto, per onesta intellettuale, bisogna dire che il modo di fare poesia da parte dei nostri rimatori del XIII secolo, era ed è molto distante dal linguaggio a suo tempo in essere e da quello attuale ed anche da quel modo di scrivere la poesia siciliana di oggi.

 

Ma se invece, come vedremo più sotto, fra le righe, andiamo a fare un paragone tra il poetare della su citata Scuola Siciliana e quella del “Dolce Stil Nuovo” (prendendo solo come esempio la poesia “Amor che lungiamente m’hai menato” di Guido delle Colonne e la poesia “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” del sommo Dante Alighieri) vedremo che in effetti non era assolutamente un “nuovo stile”, bensì una continuazione di quel modo di scrivere raffinato e formale di quei poeti che frequentarono la “Scuola Poetica Siciliana” presso la Magna Curia di Palermo:

 

Amor, che lungiamente m’hai menato” “Amor , ch’a nullo amato amar perdona”

 

Amor, che lungiamente m’hai menato …Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,

 

a freno stretto senza riposanza, prese costui de la bella persona,

 

alarga le toi retine, in pietanza, che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

 

chè soperchianza – m’a vinto e stancato; Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

 

c’ò più durato – ch’eo non ò possanza, mi prese del costui piacer si forte,

 

per voi madonna, a cui porto liana che, come vedi, ancor non m’abbandona.

 

più che non fa assessino asorcultato Amor condusse noi ad una morte:

 

che si lassa morir per sua credanza. Caina attende chi a vita ci spense.

Ben este affanno dilettoso amare, e dolze pena ben si pò chiamare;

 

ma voi, madonna, de la mia travaglia,

 

ca si mi squaglia, -prenda voi merzide,

 

che ben è dolze mal, se no m’auzide.

Dal Duecento e fino al Quattrocento la scrittura in Italia rifletteva ancora degli usi linguistici della zona di appartenenza, che pur se attenuati in parte dall’applicazione prima della Lingua latina e successivamente da quella siciliana e poi dal dialetto toscano, si è riusciti quasi tutti insieme a contribuire alla nascita ed allo sviluppo del “Volgare”, dal quale alla fine è sfociato l’Idioma d’Italia.

 

Pertanto, poiché il nostro “dialetto”, inteso senza alcun dubbio come Lingua, da moltissimo tempo ha un suo grande spazio nella lingua parlata, sarebbe opportuno, proprio in questo momento che l’Assemblea Regionale Siciliana ha già emanato (in data 07/04/2011) un Decreto Legislativo, venisse finalmente (dopo la ratifica) introdotta ed insegnata nelle Scuole Pubbliche, come una materia qualsiasi nell’insegnamento degli studenti in quanto bisogna considerare che in passato, per ben due secoli, è stata la Lingua ufficiale della Sicilia.

 

Ciò sarebbe veramente un grande risultato che sancirebbe, nell’ambito di applicazione delle leggi nazionali, la tanto auspicata autonomia scolastica siciliana, per il recupero delle nostre tradizioni culturali, che non sono poche e che permetterebbe più facilmente anche tramite l’inserimento dell’insegnamento della nostra storia regionale a spronare i giovani a riscoprire l’origine della loro identità.

 

Un’idea che dovrebbe essere considerata in modo costruttiva e seria, in

quanto, pur vivendo in un momento in cui si tende sempre più all’abbattimento
delle frontiere, non si può essere cittadini del mondo senza prima essere consapevoli della proprio identità.

 

A tal proposito, nel lontano 424 a. C., l’aristocratico condottiero siracusano Ermocrate, a seguito le reali minacce di invasioni ateniesi, durante il Congresso di Gela, oltre a coalizzarsi con i siculi, i sicelioti, gli italioti ed anche con i cartaginesi presenti in Sicilia, prima ancora di sancire la Costituzione della Nazione Siciliana, affermò in modo inequivocabile l’identità dei siciliani:

 

“Noi non siamo né Joni, né Dori, ma soltanto Siculi”, con questa frase
Ermocrate dimostrò il suo sviscerato amore di Patria e di libertà;

Anche il grande scrittore, letterato ed antropologo siciliano Giuseppe
Pitrè (21 dicembre 1841 – 10 aprile 1916) affermò che:

 

“Nella lingua è la storia del popolo che lo parla; e dal dialetto (inteso sempre come lingua) è dato apprendere chi furono i nostri padri, che cosa fecero, come e dove vissero, con quali genti ebbero rapporti, vicinanza e comunione”;

Mentre il poeta-scrittore Gesualdo Bufalino (15 dicembre 1920 – 14 giugno
1996) dichiarò che:

 

“Un popolo che non ha memoria non ha futuro”;

 

Ignazio Buttitta (19 settembre 1899 – 5 aprile 1997) fu uno dei più
grandi poeti siciliani di fama internazionale, il quale si autodefinì “Poeta in
Piazza”. Ignazio Buttitta è stato l’unico poeta dialettale al quale un editore
prestigioso come Giangiacomo Feltrinelli ha dato ampio spazio. In una sua
bellissima lirica che intitolò “Lingua e dialettu” sbandierò in modo chiaro le
sue radici, con la dignità di un vero pensatore libero, così come segue:



 



Un populu



mittilu a catina



spughiatilu



attuppatici a vucca



è ancora liberu.



 



Livatici u travagghiu



u passaportu



a tavula unni mancia



u lettu unni dormi,



è ancora riccu.



 



Un populu



diventa poviru e servu



quannu ci arrubbanu a lingua



addutata di patri:



è persu pi sempri.



 



Diventa poviru e servu



quannu i paroli non figghianu paroli



e si mancianu tra d’iddi.



Mi nn’addugnu ora,



mentri accordu la chitarra du dialettu



ca perdi na corda lu jornu.



 



Per brevità, non abbiamo riportato tutta la poesia in quanto già
abbastanza lunga, ma i versi sopra citati sono molto chiari e significativi,
con i quali il Poeta si rivolge a tutto il popolo della Sicilia affinché
reagisca e conservi la propria identità, attraverso l’uso della sua Lingua.



Come abbiamo visto, la nostra terra da millenni ha sempre avuto un ricco
passato di storia e di gloria e che tra l’altro essendo al centro del “Mare
Nostrum” è sempre stata un crocevia di popoli e di culture che hanno lasciato
impronte indelebili di inestimabili valori ed è inoltre la terra che ha dato i
natali a statisti, santi, papi, artisti di grandissima fama, scienziati,
filosofi, scrittori e poeti a livello mondiale, che hanno contribuito e
contribuiscono fino ad oggi ad aumentare il fascino e la magnificenza di questi
incantevoli luoghi isolani.



La inconfondibile e reale conformazione geografica di “Isola” ha permesso
alla lingua della nostra terra di potersi mantenere abbastanza distante dalle
influenze linguistiche o dialettali delle altre regioni, consentendo nel
contempo una quasi omogeneità, pur tenendo conto delle diversità che esistono a
livello fonetico e metafonico (cambio di vocali e qualche consonante) tra una
provincia e le altre, ma spesso anche tra paesi vicini e confinanti.



Pertanto, per quanto precede, la Lingua siciliana si divide in tre zone:



- Siciliano Occidentale = Area di Palermo, Trapani, ed Agrigento;



- Siciliano Centrale = Area del Nisseno ed Ennese;



- Siciliano Orientale = Area di Siracusa, Ragusa, Catania e Messina.



Infatti, tutte le differenze che si notano nel “lessico” derivano
esclusivamente dalla presenza di reminiscenze derivanti dalla lingua greca e da
quella araba, mentre primeggia e si presenta quasi in modo uniforme il lessico
latino, come raramente si trova nelle rimanenti regioni della penisola Italica.



Tuttavia in considerazione della lunga e variegata storia della Sicilia è
veramente difficile distinguere bene tutte le influenze linguistiche introdotte
nella Lingua Siciliana, che tra l’altro hanno contribuito alla formazione di
una sola Lingua, con un idioma esclusivo e riconoscibile.



La Lingua Siciliana non è soltanto un mezzo per esprimersi e dialogare,
ma nella sua parlata riflette in modo ampio tutto il trascorso della vita del
popolo stesso, che evidenzia bene la plurisecolare tradizione del suo
innegabile legame con la sua gloriosa storia.



Infatti, la sua particolarità venne esaminata da diversi studiosi di
glottologia e tra questi il tedesco Gerald Rohlfs, il quale dichiarò che
“nell’Isola esiste un dialetto unico” inteso sempre come Lingua.



Pertanto è giusto evidenziare che nonostante ciò fino a questo momento il
suo uso è molto diffuso esclusivamente sia come “lingua familiare che come
lingua confidenziale e conviviale” tra persone in stretta relazione, pur tenendo
molto in considerazione che la stessa presenta già abbondantemente una
produzione letteraria e teatrale piuttosto viva e che inoltre, in tempi non
sospetti, diversi studiosi si sono già cimentati nello studio di una “Lingua
Unica” affinché questa possa essere riconosciuta come tale, come il Camilleri
(che vanta una dedizione più che decennale per lo studio e la ricerca della
perfezione della Lingua siciliana), il Piccitto, il Mortillaro, il Lumia, il
Cicala, ed il Messina.



In conclusione, come già detto sopra la nostra lingua è costituita da
diversi strati e comunque non staremo qui ad elencare tutti i vocaboli che in
essa sono contenuti e che hanno origine dal greco, dall’arabo, dal francese,
dallo spagnolo e cosi via, fino a giungere ai nostri giorni. Però questo non
vuole assolutamente significare che la nostra Lingua non è affatto siciliana,
anzi, nonostante su questa Isola si sono alternati diversi dominatori, lo
spirito siciliano è sempre rimasto libero da ogni imposizione.



Questo comportamento ha fatto si che, in qualche modo, siano stati i
siciliani a dominare ed a prevalere sui conquistatori di turno, tenendo ben
presente la propria identità, accettando ciò che ritennero positivo e
rigettando tutto quello che non era per niente compatibile con i propri valori
familiari, amore, senso dell’onore, rispetto per i morti e per gli anziani,
rispetto per i propri genitori e per l’amicizia. Quanto appena detto, questo
per i siciliani fa parte della loro cultura che ormai si portano dietro da
moltissimi secoli e nessuna dominazione è riuscita a scalfire.



Pertanto, per quanto esposto, alla luce del su menzionato Decreto
Legislativo del 07/04/2011, è auspicabile che gli Organi Costituzionali
preposti dalla Regione Siciliana, affidino l’incarico ad un Comitato di esperti
linguisti e di riconosciuti personaggi della cultura siciliana, che godono del
più alto prestigio nell’Isola, per formare un Organismo istituzionalizzato
affinché si elabori una grammatica ed unico vocabolario (definitivi) per essere
legalmente riconosciuti come l’unica Lingua siciliana attuale, che possa essere
insegnata nelle scuole di tutta la Sicilia.



 



 

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